Fenomeno, Tenaja, Ordinho e la generazione “campetto”

In gioventù ho speso buona parte dei miei pomeriggi cordovadesi al campetto. Da solo per tirare a canestro, con gli amici per partite due contro due, o con altri ragazzi per giocare a calcio. Ma per me il campetto è stato, soprattutto, una palestra di vita. Il microcosmo di ragazzi che si creava, diverso ogni pomeriggio, mi ha insegnato a gioire delle vittorie, a rispettare gli sconfitti, ad aiutare chi si faceva male, a dividire chi litigava, a pensare come una squadra e non solo come singolo.

Il campetto, l’ho capito solo più tardi, era una preparazione alla “vita vera“, anche se in forma di gioco. L’acqua a fine partita era più buona se condivisa con tutti gli altri, le chiacchiere sotto al canestro in cerca di un filo d’ombra erano stanche, ma piene di sogni. Già, perché proprio dal campetto sono partiti i miei, di sogni. Pensavo: andrò a lavorare lontano, farò un mucchio di soldi e poi tornerò a Cordovado e costruirò una villa con campetto privato di calcio, di basket e di tennis. Solo ora, dopo molti anni, capisco che sarebbe un controsenso avere un campetto in casa. Il campetto è per definizione pubblico, aperto a tutti. Non si impara a stare con gli altri – con tutti gli altri – se puoi fare selezione all’ingresso, come in discoteca. Il bello del campetto è questo: arrivi, c’è già altra gente, chiedi con gentilezza di poter giocare, aspetti rispettosamente il tuo turno, cominci la partita, fai conoscenza con persone nuove, ti diverti, urli, litighi, fai pace, ti arrabbi perché hai perso, esulti perché hai vinto, e poi te ne torni a casa pronto per una doccia calda e una buona cena. E poi, la sera, ti ritrovi con le stesse persone al bar a discutere di quel goal fantasma, di quel passaggio perfetto o di quel tiro da dimenticare.

 

Ora che vivo in città – dove i campetti sono pochi, rovinati e quasi sempre poco accessibili – mi rendo conto di quanto la “dimensione campetto” sia stata fondamentale per la mia crescita. E ogni tanto penso con piacere alle risate che ci siamo fatti, ai pomeriggi d’agosto sotto a un sole insopportabile, o d’inverno con tute da ginnastica così pesanti che si faticava a correre. E poi certi giorni, magari mentre vado al lavoro e vedo un bambino con un pallone sottobraccio, ripenso anche al fatto che nessuno, al campetto, veniva chiamato col proprio nome: c’erano soprannomi geniali, storpiature dei nomi di battesimo, molto spesso ci chiamavamo solo per cognome, neanche fossimo in caserma. Ma non c’era cattiveria, o volontà di prendersi in giro. C’era solo la voglia di rendere ancora più magiche e esotiche quelle partite infinite, che iniziavano alle due e finivano solo quando il buio rendeva impossibile stabilire se l’ultimo tiro era un goal o meno. E così, ogni tanto, mi chiedo se anche Tenaja, Fenomeno, Ordinho e tutti gli altri pensano ancora con nostalgia ai pomeriggi passati insieme al campetto.

Federico Favot