Sui costi della “transizione ecologica”

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Nell’articolo di luglio “Ridurre gli effetti del clima che cambia” venivano delineate azioni utili nell’immediato a scala locale per tentare di arginare alcune cause della modificazione sempre più irreversibile del clima planetario, quali reti capillari di distribuzione di energia da fonti rinnovabili e batterie di accumulo. Azioni che sono tra i cardini dell’annunciata “rivoluzione” green, che include anche una grande opera di digitalizzazione a partire dallo sviluppo delle tecnologie dell’informazione (5G), automazione, intelligenza artifi iale e internet delle cose (domotica, robotica). Tutti questi sviluppi, come ogni altro derivato tecnologico – smartphone, computer, gps, dispositivi wireless e di controllo da remoto, banche dati, schermi e sensori, pannelli fotovoltaici, veicoli ibridi, elettrici e a guida autonoma – sono realizzabili solo grazie ai cosiddetti metalli (o terre) rari, come litio, rame, silicio, titanio, cobalto, tantalio, oro, tungsteno e vari altri.

Tuttavia, è fuorviante e ambiguo parlare di “ecologia” solo in termini di efficienza e presunta riduzione del consumo di combustibili fossili e loro emissioni nella fase di utilizzo di qualsivoglia oggetto. L’uso è infatti solo la fase intermedia della sua “vita”, esso è prima lavorato e assemblato da qualche parte nel mondo a partire da certe materie prime e dopo, in qualche maniera e da qualche altra parte, deve essere smaltito. Quella che spesso è molto più fosca è la filiera dei materiali indispensabili alla transizione energetica in corso.

Il tantalio, principale elemento dei microcondensatori, si estrae dal coltan, una miscela di minerali, proveniente per l’80% dal Congo dove le multinazionali dell’hi-tech lo acquistano da bande armate che controllano le miniere in cui le condizioni di lavoro sono massacranti, i turni di quattordici ore per una paga irrisoria. Nelle miniere congolesi si stima lavorino circa 40000 bambine e bambini di neanche dodici anni, le prime spesso diventano poi schiave sessuali e sono avviate alla tratta della prostituzione, i maschi diventano bambini-soldato.

L’oro viene estratto prevalentemente in Sud America e implica la distruzione della foresta per accedere al sottosuolo, mentre la setacciatura dei detriti, che non è fatta col colino ma col mercurio che scioglie tutto lasciando intere solo le pepite, provoca grave contaminazione delle acque. Il traffico illegale di oro comporta la deportazione delle comunità contadine locali e centinaia di assassinii fra chi si oppone. Occhio non vede cuore non duole, oltre l’80% dei rifiuti elettronici mondiali viene scaricata con navi container in Ghana, Nigeria, India, in discariche a cielo aperto dove le persone cercano di recuperare materiali che possano poi rivendere.

Se sul come reperire poi l’enorme quantità di energia elettrica necessaria alla transizione energetica l’idea è quella di affidarsi a nucleare e gas metano come hanno il coraggio di dichiarare il ministro Cingolani e l’UE, c’è poco da ridere. L’ambita svolta smart che consentirebbe il “Green” New Deal europeo si regge sulla devastazione e il saccheggio di materie prime e forza-lavoro schiavizzata in tutti i continenti, dove poi l’Occidente riversa anche la sua spazzatura, non solo elettronica (si pensi a Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, uccisi mentre indagavano su traffici di rifiuti tossici in Somalia).

A meno che ci si rifiuti di guardare oltre il proprio naso, nulla fa pensare che l’impatto sociale e ambientale della “green economy” possa essere minore di quello dell’economia dei combustibili fossili, delle cui conseguenze poi non si vuol neanche sentir parlare, soprattutto delle persone in fuga da simili inferni. Lo sfruttamento di centinaia di migliaia schiavi nelle vecchie e nuove colonie è lo stesso razzismo di qui, la distruzione degli ecosistemi laggiù origina le pandemie che arrivano anche nell’Occidente bianco, come si è abbondantemente visto negli ultimi due anni. Una delle azioni più risolutive è sempre quella di evitare il più possibile l’uso, il consumo e lo scarto di dispositivi elettronici e rifiutarsi di rendersi totalmente dipendenti e succubi dell’utilizzo delle infrastrutture digitali.

Davide Roviani