Senza titolo, dalla Guadalupa

È una di quelle notti in cui il rapporto tra sonno e desiderio di soddisfare questo bisogno é inversamente proporzionale: continuo a rimandare il momento mentre cerco di capire cosa mi tiene ancora sveglia. Nel pomeriggio appena trascorso, qui in Guadalupa, sono andata in un luogo. Se mi concentro, se relego il presente nel buio quasi totale di questa stanza, riesco a sentire l’odore acre e a tratti solipsista della schiavitù.

Nel cuore di una valle, coperta e forse protetta da una vegetazione rigogliosa, al termine di una via tortuosa e impervia si trova una “Bitation”, come la chiamano i creoli. Si tratta di una proprietà coloniale, ma noi ci fermiamo agli appartamenti degli schiavi neri, e ad alcuni dei loro luoghi di lavoro.

Mi devo imporre un certo distacco, per attribuire a coloro che – per quanto assurdo e inopportuno possa sembrare – mi é impossibile non considerare degli avi, il nome di schiavi.

Intuitivamente ho definito la schiavitù “a tratti solipsista”: é come se alcuni di loro vivessero la loro condizione come la sola e unica possibile. Una condizione che, da un certo momento in poi, concepisce se stessa come una necessità irrimediabile: è uno schiaffo in pieno volto assorbire infine l’idea che ci sia stato chi abbracciasse una tale condizione, inerme nel proprio oblio di essere fondamentalmente umano.

La mia amica Tess e io, scambiandoci uno sguardo (sor)ridiamo leggermente, con amara malinconia al pensiero che anche solo fino a settanta/ottant’anni fa saremmo state schiave a causa del pigmento caramello che indossiamo naturalmente da tutte le nostre brevi esistenze.

Renderebbe meno complicato vivere, se dimenticassimo completamente l’odore di ciò che siamo soliti chiamare libertà, no?

Soffriremmo di meno, o con un’intensità minore, se questa sostanza che riveste le pareti della nostra anima e che ha come fine ultimo l’espressione di sé; se questa sacra sostanza che deve (imperativo!) illuminarci dall’interno, brillare e far risplendere ciò che tocchiamo; che deve essere la linfa vitale di ciò che immaginiamo e compiamo; soffriremo diversamente se la libertà si soffocasse, si autoassassinasse in noi. Diverremo quel che i francofoni chiamano “legumes”, esseri spenti ma non morti.

I nostri passi nel silenzio sembrano l’eco finalmente quasi pacifico dei loro, solchiamo le viuzze petrose dei loro supplizi. Mi rincuora il pensiero che molti tra loro, avendo potuto, avrebbero scelto di vedere il giorno della propria libertà, o almeno di quella dei loro figli. Ed é un sorriso libero, velato di commozione la consapevolezza che noi, in questo luogo oggi, siamo il concreto del loro anelito.

Mi torna in mente “I sommersi e i salvati” di Primo Levi: dovevano trascorrere due anni, dovevo percorrere una fetta di mondo lunga ottomila km per rendermi conto di come le stesse logiche governino fenomeni e realtà apparentemente distanti in ogni risvolto.

Qui realizzo che non esistono solo il bianco e il nero – e il rosso che comunque si cela dietro a entrambi – che ci sono innumerevoli se non infinite gradazioni, toni, intensità tra i due estremi, letteralmente. Mi avvince di un fascino guizzante il fatto che ognuno di questi toni abbia la propria bellissima storia: già uno sguardo distratto permette di notare i differenti seppure simili incarnati, con conseguenti peculiarità somatiche, che viene voglia di compilare un’enciclopedia della commistione e ibridazione tra i mondi umani.

Forse sto imparando a superare la tendenza verso il “manicheismo” culturale e ideologico, che è una malattia di cui la maggior parte delle persone è infetta, in quest’epoca, a volte senza averne il minimo sospetto.

La Bitation detta de La Grivellière è stata per almeno due secoli sede di una piantagione di caffé estesa su 47 ettari di terreno e accogliente 45 schiavi; ma il passato non viene tralasciato: l’attività continua tutt’ora, parzialmente.

Concludiamo la visita nel piccolo e spartano locale dove sorseggiamo il cacao artigianale, preparato con la ricetta delle origini: una delizia senza eguali, dopo tre continenti e diverse migliaia di leghe sopra il cielo.

Kezzia Apetogbo