L’occupazione dei Cosacchi a Cordovado. Nei ricordi di Giuseppe Chiandotto

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Per un autore scrivere un libro è un’operazione collettiva che coinvolge numerose persone, nessuna di queste pagine del romanzo “La Cosacca” edito da Gaspari, non sarebbe mai stata stampata se le persone che sono state le mie fonti non avessero trovato il coraggio di ricordare e raccontare, anche se in modo un po’ vago e a volte fantasioso, parte del loro vissuto.

Scuole nel 1942

Come appassionato di storia locale già da qualche tempo stavo facendo delle ricerche sulla presenza dei Cosacchi nella Pianura friulano-veneta e in particolar modo a Cordovado. In merito all’occupazione della Carnia da parte dei Cosacchi in qualità di collaborazionisti del Terzo Reich, secondo la promessa “che qualora avessero annientato il movimento partigiano in cambio avrebbero ricevuto come ricompensa la nostra regione nella quale potevano insediarsi a discapito dei residenti che sarebbero diventati i loro sudditi”, sono stati scritti molti libri, mentre sul loro difficile insediamento in pianura mi risultano rare le fotografie e nonostante l’approfondita ricerca non ho trovato nessun libro e nessuna memoria scritta.

Le testimonianze orali raccolte si sono basate sui ricordi, talvolta lacunosi, degli ultimi superstiti di quel periodo storico: ottobre 1944-maggio 1945. Fra l’altro, di mezzo ci si era messa anche la pandemia Covid falciando diversi degli ultimi novantenni. Ho avuto, fortunatamente, per quanto riguarda il nostro paese di Cordovado, un’importante fonte orale quando, casualmente, ho conosciuto Giuseppe Chiandotto e gli ho proposto un colloquio in merito alla questione e lui, accettando, mi raccontò come si svolse l’occupazione da parte dei “Mongui” (così li chiamavano) nell’ottobre del 1944. Di seguito, riporto alcuni passi di quella piacevole chiacchierata avvenuta nella scorsa primavera, che inizia chiedendogli: “Giuseppe che ricordo hai dei Cosacchi a Cordovado?” Mi rispose: “I Mongui li vedemmo arrivare dalla strada di Morsano; entrarono in paese dalla via principale e qualcuno, tra la folla, commentò: ma questi sono messi peggio dei girovaghi! Infatti, incuriositi, guardammo il transito delle teleghe, che sono carri primitivi, strette e sgangherate che trainate da cavalli ridotti all’osso procedevano come un serpentone lentamente e prudentemente in quanto un’eventuale buca avrebbe provocato danni irreparabili.

Quando i primi di loro ci passarono davanti potemmo notare che utensili, pignatte, damigiane, fusti, casse, sacchi, fieno, patate, pannocchie, pagliericci, coperte e indumenti d’ogni sorte erano ammonticchiati alla meglio al loro interno e che molte erano ricoperte con pelli di bovino di recente macellazione, oppure con tappeti, corsie, teli da tenda o copriletti. Stupivano molto anche gli archi di quelle scoperte dove avevano appeso pezzi di carne oramai dal colore giallastro e ricoperti di mosche. Infine, qualcuno seguiva la colonna a piedi con il compito di sorvegliare sparute vacche e capre magre e affamate.

Anche l’aspetto dei maschi non passava indifferente. Portavano i capelli raccolti all’interno del colbacco, avevano folte barbe incolte e lunghi baffi. Indossavano le divise più disparate, assurde uniformi dell’antica cavalleria zarista con grandi colbacchi di pelo nero con la parte superiore rossa, blu o verde. I pantaloni erano bianchi con vistose bande rosse o blu sui lati. Le cartuccere fatiscenti e semivuote erano portate sul petto e le pistole e i fucili avrebbero trovato facilmente spazio in qualche museo.

Stavano sfilando con le loro miserie che erano l’avanzo o la parvenza dell’agiatezza perduta, quello che rimaneva degli antichi fasti di un popolo braccato che da sempre aveva cercato di essere libero e ora era in cerca di un posto dove poter di nuovo iniziare a vivere”. Gli chiesi poi: “Dove si accamparono?” e lui mi rispose: “Presero possesso dell’edificio scolastico (nella foto, la scuola nel 1942, ndr) che trasformarono in una stalla: le aule vennero svuotate dai banchi e dalle cattedre e dopo aver sparso della paglia sui pavimenti vi misero i loro splendidi cavalli, nel sotterraneo misero casse di munizioni e fucili e nel cortile posizionarono le loro teleghe. Uomini, donne e bambini dormivano all’esterno con qualsiasi condizione climatica e i fuochi erano sempre accesi.

Erano un centinaio circa e provenivano da un grosso accampamento che sorgeva vicino al guado di San Paolo di Morsano. Ogni giorno a rotazione le famiglie cordovadesi avevano l’ordine di portare fieno e paglia altrimenti avrebbero dato fuoco al paese, per fortuna questo non accadde, anche perché i partigiani si tenevano alla larga e cercavano di evitare qualsiasi scontro a fuoco. Anche il Sindaco dell’epoca ci invitava ad assecondarli onde evitare spiacevoli conseguenze. Erano ghiotti del brodo di pecora che facevano bollire in pentoloni e si contendevano il grasso che veniva in superficie”.

“Ogni sera cantavano e ballavano – aggiungeva Giuseppe – attorno ai fuochi ingurgitando tutto quello che poteva contenere alcool, compreso i profumi e l’acqua di colonia, tanto da stramazzare al suolo ubriachi. Ricordo che coniammo un modo di dire: meglio un cosacco in cantina che un partigiano sull’uscio.

Noi ragazzi eravamo felici perché l’anno scolastico fu interrotto e, dopo qualche giorno, riuscimmo a fare amicizia con i nuovi arrivati che ci permettevano di fare qualche giretto a cavallo. Si insediarono in tutta la pianura padana fino alle valli del fiume Po, perché c’era la possibilità di un imminente sbarco degli Anglo-Americani nelle nostre spiagge e a loro era stato dato l’ordine di rallentare una eventuale invasione. Questo per fortuna non accadde.

A fine aprile del ’45 se ne andarono”. Continuai: “Da dove arrivavano?” E lui mi spiegò e concluse: “In seguito venimmo a sapere che erano di religione ortodossa e arrivavano dalla regione del Kuban, un’area geografica del sud della Russia; erano fuggiti abbandonando i loro villaggi perché si erano ribellati al sistema comunista imposto con la forza da Stalin e, di conseguenza, si erano alleati con il Terzo Reich. Solo molti anni dopo si seppe che furono 20.000 i cosacchi ad occupare il Friuli battezzandolo Kossackja o Kosakenland, cioè “Terra Cosacca, la nostra nuova patria” e che la loro presenza nei nostri territori durò circa 8/9 mesi.

A fine guerra vennero tutti catturati e riconsegnati a Stalin che a sua volta li spedì in Siberia. Una gran brutta fine”. Ancora oggi il loro arrivo in Friuli è oggetto di studi e ci vorrà molto tempo prima che emergano le verità nascoste su questo popolo che cercava solo un posto dove poter vivere in pace.

Fabrizio Blaseotto