Per la libertà di tutti

Per gentile concessione dell’autore, Manlio Simonato, pubblichiamo un brano tratto dal “Diario di un partigiano garibaldino”. Il brano, che riporta alcuni vissuti al tempo della Resistenza, è stato letto dagli alunni delle classi quinte della Scuola Primaria “G. Marconi” di Ligugnana in occasione della celebrazione del 25 aprile del Comune di San Vito, tenutasi in località Braida Bottari.

Lo scorso 2 giugno, in occasione della cerimonia del 70-esimo anniversario della Repubblica in Prefettura a Pordenone, Manlio Simonato è stato insignito della “Medaglia della Liberazione” per aver partecipato alla Resistenza e alla Lotta di liberazione dai nazifascisti.

All’inizio del 1944 la Repubblica di Salò mi inviò la cartolina precetto per continuare la guerra a fianco dei Tedeschi. Non ebbi esitazioni, mi arruolai subito nelle file dei partigiani della “Garibaldi”, assumendo il nome di battaglia “Ascaro”. All’inizio venivo incaricato di fare la staffetta: portavo ordini in bicicletta agli altri gruppi di partigiani, con foglietti ben nascosti dentro il tubo del manubrio. Mi procurai anche una carta d’identità falsa che si rivelò più volte la mia salvezza.

Nei primi mesi del ‘44 con i nuovi documenti potevo circolare liberamente. Sovente facevo il giro con carro e cavallo, prima a Morsano e poi a Cordovado, nelle case degli agrari per raccogliere granoturco, fagioli, patate e altri prodotti della terra, da destinare alle zone della Carnia, che erano state saccheggiate dai nazifascisti e dai cosacchi. Lì la gente moriva di fame. Il 28 giugno 1944 a Morsano ci fu un rastrellamento da parte dei Tedeschi: cercavano anche me; ormai sapevano che militavo nelle file dei partigiani. Si presentarono a casa mia alle 4 del mattino, eravamo tutti a dormire, solo mio padre e mio zio si erano alzati per i lavori della stalla. Ci allertarono in tempo utile e così io potei fuggire nel boschetto della contessa Freschi di Ramuscello, inseguito dagli spari, ma feci perdere le mie tracce. Non andò altrettanto bene per il mio amico, poiché nella sua cantina trovarono materiale di propaganda antifascista. Prima lo picchiarono poi lo portarono a Cordovado e da lì non si ebbero più sue notizie.

Ricordo il rigido inverno del 1944/45, ho sofferto talmente tanto il freddo che non potrò mai dimenticarlo. Dormivo assieme ad altri 5 partigiani nella soffitta della piccola chiesa di Bando. Sopra il tetto c’erano almeno 25 cm di neve. Dormivamo sempre vestiti, non soltanto per ripararci dal freddo, ma per essere pronti ad eventuali irruzioni tedesche. Mia sorella Iride la sera appoggiava al muro la scala di nascosto, per consentirci di salire in tutta fretta senza farci notare. La mattina presto faceva lo stesso per permetterci di scendere. Da un aereo inglese che aveva tentato con scarso successo un atterraggio di fortuna nei pressi dell’argine del Tagliamento, recuperammo 8 paracadutisti: uno di loro era una donna, li aiutammo a ricongiungersi con le Forze Alleate portandoli a Caorle, dove c’era un sottomarino che li aspettava. Per ringraziarci ci lasciarono parte del loro equipaggiamento che noi trasformammo in vestiti. Era il 29 novembre 1944, quando il mio gruppo decise di nascondere le munizioni ed i fucili nel cimitero di Bando che io conoscevo molto bene. La cripta sotterranea dei conti Frattina poteva fare al caso nostro. L’unica luce quella notte d’autunno al cimitero era quella delle stoppie del granoturco e qualche fanale a carburo. Eravamo in 6, alzammo la pietra tombale ed io, essendo il più giovane e il più agile, scesi nella cripta buia, mentre gli altri mi calarono le casse con le armi. C’erano 20 cm di acqua ed un odore nauseabondo, insopportabile. Avevamo acceso le stoppie e i fanali incautamente perché, proprio in quel momento, sentimmo il rumore tipico dei motori di ‘Pippo’, il caccia che mitragliava contro ogni luce. I miei amici di sopra, abbandonarono velocemente il cimitero in cerca di un riparo. Pensai che per me fosse finita, che fuori fossero tutti morti, invece, si erano riparati da Gaspardo. Tornarono con gli attrezzi e mi liberarono. Era già mattina. Fu una delle notti peggiori di tutta la mia vita, ma non persi mai completamente la speranza di salvezza.

Finalmente tutto finì, ma la Liberazione, per me, non fu la fine dei guai. Ero magrissimo e ammalato. Il medico parlava di problemi ghiandolari. In realtà, dormire nelle stalle e nei fossi, mangiando poco e bevendo acqua infetta, non poteva certo aiutare un ventenne a crescere bene. All’inizio dell’estate del ‘45 consegnammo le armi agli Alleati a Pordenone. Cosa ci restava? Pochi vestiti, due paia di scarpe rotte, tanta fame. L’inverno successivo fu terribile, per molti aspetti non tanto migliore dei tempi di guerra.

Manlio Simonato