A proposito di “bocia”

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Quando frequentavo le scuole elementari, dopo essere ritornati a casa e subito dopo mangiato, si andava a giocare a calcio sul prato del duomo vecchio. Spesso il pallone andava sull’orto della “Nuta”. Allora bisognava essere più veloci di lei a riprenderlo, se no ci diceva che lo tagliava. Con noi giocava anche un garzone di Celso Ventoruzzo il fabbro, e quando mancavano cinque minuti alle due, si sentiva battere più volte il martello sull’incudine. Era la sirena artigianale per chiamare il “bocia” al lavoro.

A proposito di “bocia”: durante le vacanze estive uno o due ragazzini venivano a lavorare in officina da mio padre, e venivano volentieri, così non stavano a casa senza far niente – dicevano i genitori – e prendevano qualche lira per comprare il gelato. Mio padre se la godeva, con questi ragazzini. Un giorno che mancò la luce, mandò uno di loro a prendere un “bidone di corrente” da Cester, impresa di asfaltatura che aveva sede vicino al Paker, dove in officina c’era un suo amico, “Giacomin” Marzin. Quest’ultimo, come d’accordo, consegnava al ragazzo un bidone di olio vuoto, ma ben chiuso. Quando tornava, mio papà apriva il tappo e facendo finta di arrabbiarsi gli diceva: “Hai perso la corrente per strada”. Il giovane lo guardava serio e quasi col pianto, allora mio padre con un sorriso gli diceva: “Sveglia!”.

I ragazzi che possedevano un motorino erano orgogliosi e fieri, ma quando il mezzo non andava più in moto venivano in officina con le orecchie basse a farselo riparare. Così, mio padre toglieva la candela, e dava loro il filo da tenere in mano, dopo di che dava un colpo di pedale e li faceva saltare alti per la scossa. Seguiva il solito “sveglia!”, diretto quanto benevolo.

Piero Dorigo