Paura di perdere tutto

Gentile redazione,

sono solo la figlia di una cordovadese: mia mamma si chiamava Santa Del Bianco, nacque nel 1922 e lasciò il paese a 13 anni, nel lontano 1935. Lo lasciò fisicamente, ma fu sempre nel suo cuore e nel suo essere. Il suo narrare di quel breve periodo della sua vita passato a Cordovado ha per me un che di sacro, così lontano dalla mia, di vita: io nata negli anni 60 e vissuta a Milano. Da alcuni di quei ricordi sono nati dei racconti ve ne invio uno che riporta al nostro presente, così tranquillo ed opulento, il tormento di una bambina costretta a crescere troppo in fretta. Per me emigrare vuol dire ancora questo.

Cordiali saluti,
Paola Carriera

Non so se tu l’abbia mai provata, provo a spiegarti cosa vuol dire per me. Mia madre era povera. Non nel senso che non poteva comperarsi un vestito o fare una vacanza, questa è la povertà che intendiamo noi, oggi. Mia madre nacque e purtroppo crebbe in una lontana provincia dell’impero. Lo è ancora oggi, ma pare se la passino meglio. Non ricordava esattamente quanti fratelli e sorelle fossero: i nonni erano piuttosto prolifici e dai racconti pare fossero sei, forse sette fratelli e sorelle, lei ne ricordava solo alcuni. Quelli morti, intendo. Quelli sopravvissuti sono arrivati sino a me, ma questa è un’altra parte della storia. Non so dove vivessero. I racconti erano talmente confusi che una volta arrivata nel Paese, non ho trovato la casa: dai suoi racconti non si capiva dove fosse. So che era fredda d’inverno, talmente fredda che sui vetri si formavano i cristalli di ghiaccio. So che le porte erano basse, mi narrava di un nonno (suo nonno) talmente alto da doversi abbassare per passare da una stanza all’altra. Ma io non so quanto fosse alto. I miei nonni avevano dei nomi letterari: Paolo e Virginia. Ne conservo qualche foto presa sul “Pacar” con mia mamma giovane e bella e vestita con un abito a pois che mi perseguiterà tutta la vita (ammetto di andare pazza per i tessuti con qualsiasi tipo di pallino). Andava a scuola, non so quale: ricordava di aver fatto la sesta quando a Milano ci si fermava alla quinta elementare. La colazione era polenta e latte. La scuola. Il pranzo di polenta e latte. E poi nei campi. Nei campi. Mia madre non capiva la mia volontà di gioco, la mia leggerezza di bambina: lei non era stata bambina. I suoi giochi erano rubati al lavoro, fatti di gessetti per terra e di risa quasi colpevoli. Faceva buio presto nella lontana provincia dell’impero: cena con polenta e uova, sì uova, perché la nonna dal lavoro dei campi portava le uova come pagamento.

Una bella vita davvero.

Natale pare arrivasse anche da quelle parti e si usava mettere gli zoccoli (mia madre conobbe le scarpe solo molto più tardi) sulla finestra per attendere qualche dono. La mattina dopo avrebbe trovato “un mandarin e 2 coculis” un mandarino e 2 noci e sarebbe stata contenta. Sarebbe stata contenta di questi doni. E così fu, fino a 13 anni. Nel 1935, fu messa su un treno. Non ho mai saputo se abbia pianto o no. Lei non me lo ha mai detto. Dalla lontana provincia dell’impero, dove ancora oggi si parla in modo strano, salì su un treno che si fermò a Napoli. La bambina di 13 anni diventò una bambinaia. La trasformazione sta nelle parole: da bambina a bambinaia. La bambina non fu mai più una bambina. La SIGNORA (lo scrivo in maiuscolo perché la mamma parlava in maiuscolo delle sue SIGNORE) veniva da un’altra Provincia dell’Impero, solo un poco più a sud.  A differenza di mia madre, lei era ricca ed aveva due bimbini, due bambini veri di quelli che giocavano e strillavano e facevano i capricci: le serviva una bambinaia giovane e forte. Quella bambinetta di 13 anni non era particolarmente forte e sana e per di più non la capiva quando parlava e allora… quando non capiva bene c’era la punizione: in ginocchio sui ceci, “così impari”. La mamma cominciò a mangiare, aveva bisogno di mangiare e con il suo lavoro si mangiava anche a casa, dove erano rimasti gli altri. Accettare tutto è facile quando hai veramente bisogno. E’ una legge universale e la mamma lo capì alla svelta. Ho ancora le sue foto della trasformazione: appena arrivata a Napoli si vede una bambina smilza e frastornata, dopo pochi mesi il suo viso si trasforma in una luna e la vedo sorridere mentre abbraccia dei bambini sconosciuti. Partì da Napoli due anni dopo e qualche chilo in più. Si diresse verso Milano. Era una tappa di avvicinamento verso la lontana Provincia dell’Impero da cui era partita, forse. Sarebbe stata la sua casa per sempre.

Ho paura della fame, degli zoccoli, dei ceci, della sopraffazione dei bisognosi: oggi come ieri e penso che l’avrò per sempre. E’ una paura che non perdi mai, fa parte del tuo patrimonio genetico: sai da dove sei arrivato e sai che lì potresti tornare. La Storia è fatta di corsi e di ricorsi, non solo quella ufficiale, anche quella dei singoli: mia madre mi ha insegnato a stare attenta a non ricadere nell’inferno da dove era venuta.

Ho cinque anni, forse sei, non di più. sono seduta a terra in una stanza piena di luce. Sopra di me pendono stoffe bellissime: sete di abiti da cocktail, da sera e… una nube di saponaria. Oggi non si usa più, la saponaria. Polvere magica contro le macchie. Non ricordo esattamente la sequenza, ma la mamma la usava. Serviva per togliere le macchie dai tessuti preziosi. Prima della trielina. Dove la trielina non si usava. Odore buono. Un po’ più del sapone. Polverosa. Siedo a terra con la saponaria che mi cade dall’alto. La mamma prende gli abiti e, poi, li stira. “Mamma, mamma!“ “Shhh!!! Shhh: la signora riposa, non fare rumore!” Dall’altra stanza una “minilibreria” raccoglie in realtà altre cose: scarpe, un paio per ogni vestito. Ne ricordo color prugna ma, soprattutto, color smeraldo! Stavano insieme ad un abito di crepe de chine con base smeraldo ed altri colori a fare da contorno. E le scarpe dello stesso colore. La mamma aveva scarpe nere d’inverno (se andava bene marroni) ed esotici sandali bianchi con suola di sughero d’estate. Ma smeraldo! E con tacco! Quello vero, alto, fine!

Mi sono svegliata con questa immagine, in una strana penombra pomeridiana. Ho sentito l’odore della saponaria ed il desiderio di riscatto di mia madre. Mi sono svegliata piena del dolore di una vita che non mi appartiene e che non sono riuscita a riscattare. Mi sono svegliata per andare a stirare. Senza saponaria. Non si usa più.