La caduta di Pippo

Era una fredda mattina di fine inverno, di quello che sarebbe stato l’ultimo anno di guerra. L’ultima guerra. La donna, ancora infreddolita, nonostante la lunga camminata che l’aveva portata da casa sua al lavatoio della famiglia di facoltosi proprietari terrieri, stava lavando a mano un enorme mucchio di panni. Malgrado fosse cosciente di quanta fatica gli sarebbe costato il lavoro era contenta e, immergendo le mani nell’acqua fredda, strofinava i panni con l’oramai divenuto raro sapone. Solo le famiglie ricche ne possedevano ancora qualche pezzo in quei tempi così duri e a lei era stato concesso di usarlo anche per i suoi panni, che aveva portato da casa. Mentre lavava, la donna, lasciava andare i suoi pensieri. Un velo di tristezza gli passò sugli occhi velandoli di lacrime che scacciò subito via.

“Chissà Bepi cosa farà, con quella gamba guarita alla meno peggio – pensò la Gigia – rivolgendo il pensiero al marito che era dovuto ripartire per il fronte”.

Quando la avvertirono, alcuni mesi prima, che era stato ferito e si trovava presso l’ospedale militare di Trieste, non aveva esitato un attimo. Era partita dopo aver riempito un sacchetto, ricavato da una federa di cuscino, di generi alimentari che era riuscita a trovare preso parenti e conoscenti. Anche la signora del lavatoio aveva voluto contribuire, regalandogli mezzo salame. Quando finalmente arrivò all’Ospedale quasi non lo conosceva più, tanto era sfigurato dagli stenti e dai patimenti.

Lui quasi non la salutò, quando si avvicinò alla branda. Gli stappò il sacchetto con i viveri dalle mani e con famelica ingordigia divorò tutto quanto il suo stomaco riusciva a ingurgitare. Poi, calmata la fame, la salutò e presala per mano la condusse in un luogo appartato, dove non c’era nessuno, e soddisfò il secondo appetito.

“Ora sono di nuovo in attesa di un bimbo”, si disse la Gigia, rattristandosi al pensiero che fra pochi mesi avrebbe avuto quattro bocche da sfamare.

Improvvisamente i suoi pensieri furono interrotti da un vociare di gente che la invitavano a scappare.

“Gigia vieni via di la – gli urlò la signora tutta spaventata – non senti che sta per arrivare Pippo“.

In quel mentre, una serie di cannonate dell’antiaerea, partita da poco lontano, colpì a morte il terribile e temuto, per le sue incursioni punitive, aereo alleato che tutti chiamavano Pippo. Pochi istanti dopo, lo stesso, andava a schiantarsi in pieno centro abitato del paese.

La Gigia, che aveva seguito l’evolversi dell’azione di guerra, quando vide dove era andato a cadere l’apparecchio in fiamme, colta da un incontrollabile istinto, lasciò tutto e si mise a correre verso casa dove aveva lasciato le tre figlie piccole.

“Le mie bambine! Le mie bambine!”, urlava. Urlava correva e pregava. “Signore, fa che non sia successo nulla alle mie bambine. Sant’Antonio, ti prometto che verrò a trovarti a Padova, appena posso, ma tu salvami le mie creature. Guardami, sono sola, mio marito è in guerra; ti prego non castigarmi così per i miei peccati“. Oramai mancavano poche centinaia di metri al luogo della caduta. Aveva percorso più di due chilometri, tutti di corsa. Finalmente incominciò a incontrare alcune persone che correvano anche loro verso il luogo dell’impatto. Con il fiato che le stava per mancare e tenendosi il pancione con la mano rallentò la corsa. Vide avvicinarsi un contadino che, correndo in senso contrario al suo, rientrava in casa per prendere dei secchi per l’acqua per spegnere l’incendio. Si fermò e gli chiese con un filo di voce se aveva visto dove, esattamente, era caduto l’aereo. “Sopra la stalla di Fiore Bot, davanti a casa tua“, rispose questi, proseguendo la corsa verso casa sua.

Pochi istanti dopo alcune donne, spaventatissime, la raccolsero tutta sanguinante dopo la rovinosa caduta dovuta al tremendo shock provocato dalla notizia e la trasportarono dal dottore. Principio di aborto. Riposo assoluto fu la diagnosi. Ma la Gigia, riavutasi dopo le prime cure, si ristabilì subito, dopo aver ricevuto la notizia che le sue tre figlie erano sane e salve. La guerra, per fortuna, finì e la vita riprese lentamen te il corso. Un sabato mattina dei primi di giugno, la Gigia senti una fitta al ventre.

“È ora”, si disse. Chiamò il marito, ritornato a casa dalla guerra appena finita, e lo pregò di recarsi da suo fratello affinché la trasportasse all’Ospedale di S. Vito con il carretto trainato dall’asino. Non c’erano altri mezzi e se c’erano non se lo potevano permettere. D’altronde il dottore era stato categorico: “È pericoloso, per te e per il bambino, partorire a casa. Devi andare in ospedale“. Il fratello giunse poco dopo e si avviarono verso S. Vito, seduti sopra una balla di paglia per attutire i colpi inferti al carretto dalle buche della strada. Il carretto era giunto nell’abitato di Gleris quando un urlo di dolore sfuggi alla Gigia, mentre si comprimeva il ventre. “Ti prego, fai svelto, corri più che puoi, sono in pieno travaglio”.

Il povero fratello frustò l’asino e scese lui stesso per incitarlo a correre di più. La strada non finiva mai. Le urla di dolore si stavano lentamente affievolendo. Le forze venivano meno. Finalmente giunsero all’Ospedale. Le suore accorsero subito e la trasportarono in sala parto, mentre il fratello, seduto in sala d’aspetto, con la testa fra le mani, si rivolgeva al buon Dio.

Mezz’ora più tardi la stessa suora, uscita dalla sala sorridente, gli annunciò la nascita di un bel maschietto“Madre e figlio stanno bene. La mamma ha imposto il nome di Franco”.

Dedicato a mia madre.

Franco Daneluzzi