Abital: un ricordo dei “giovani 1968” del Curtis Vadi

Parlare dell’Abital, a distanza di tanti anni, ci fa ritornare alla memoria sentimenti di nostalgia, di rabbia e di orgoglio, soprattutto per noi che eravamo giovani pieni di ideali, con la convinzione di poter cambiare il mondo: il tempo però si è incaricato di distruggere le nostre illusioni, decretando il nostro fallimento.

E la questione dell’Abital fu l’esempio più emblematico di quel periodo. L’Italia stava uscendo dalla terribile esperienza della seconda guerra mondiale grazie all’ingegno, alle capacità, al sacrificio di molti lavoratori, al contributo di moltissimi emigranti; lentamente il benessere era entrato in tutte le nostre case. Cordovado, terra di agricoltura e di miseria, con l’Abital aveva assaporato il proprio riscatto sociale: circa 500 persone, la maggior parte donne, vivevano all’ombra di quella fabbrica. L’emancipazione femminile, parola sconosciuta in quegli anni, era diventata una realtà quasi naturale per il nostro paese. C’erano tutte le premesse perché il sogno continuasse, che la società progredisse grazie alla professionalità ed alla dedizione delle maestranze: migliaia di capi uscivano dai cancelli ed erano apprezzati dal mercato del tessile. Però sotto la cenere covava già il cancro della globalizzazione, di quella economia selvaggia, che ci ha portato oggi allo strapotere delle multinazionali e della finanza e che nessun potere politico riesce più ad arginare. Mi fermo qui: mi sono fatto prendere la mano dai pensieri che coltivavamo nel 1968 e che, come la storia ha dimostrato, sono miseramente naufragati. Infatti nel 1973 la fabbrica fu trasferita al Ponterosso con la scusa di una migliore dislocazione; in realtà tutto era condizionato dal lucrare i sostanziosi contributi pubblici, che si protrassero purtroppo negli anni: fu l’inizio della fine. La rabbia sta nel constatare che già in quel periodo noi giovani ingenui e sprovveduti del Curtis Vadi, scrivendolo nel giornalino anche con articoli un po’ sconclusionati, avevamo criticato quella scelta, prefigurando una fine ingloriosa dell’esperienza imprenditoriale.

Ora, a distanza di quarant’anni, passando per strada, non ci resta che guardare il rudere del fabbricato e pensare con rammarico a quanti sacrifici inutili ha visto nel suo interno: come al solito a pagare sono sempre gli stessi, ma si sa, quelli che ci hanno guadagnato continueranno a dire che stiamo facendo discorsi retorici e demagogici.

Walter Marzin