ABITAL: con il senno di poi

Carissimo Pierpaolo, colgo l’invito della redazione per esprimere la mia, modesta, opinione sulla oramai annosa e obsoleta vicenda dell’ascesa e declino dell’ex Vittadello. Sulla vicissitudine del trasferimento a S.Vito sono oramai calati quarant’anni. Un tempo congruo per esprimere un giudizio scevro da passioni, rancori, speranze deluse e, soprattutto, da speculazioni politiche. Sgombro subito il campo da eventuali malintesi. Non c’è alcun dubbio che la fabbrica era, e doveva rimanere, la ricchezza di un piccolo paese come Cordovado. Come non c’è alcun dubbio che il suo trasferimento a S. Vito sia stato la causa della sua chiusura. Perché? Su quest’argomento si sono prodotti fiumi di parole. Talvolta anche urlate, sicuramente sussurrate, nelle famiglie o nei ritrovi pubblici. Soprattutto, si dimentica, che Vittadello era morto alla fine degli anni ’70 e che la fabbrica era stata venduta alla Montefibre. Per cui è inevitabile pensare che la decisione del trasferimento sia stata presa dalla Montefibre, non dalla Vittadello.

Proviamo, ora, a chiederci quale potrebbe essere stato il motivo del declino. Quello di una fabbrica che produceva ricchezza, trasformatasi in pochi anni in una tomba di alta capacità professionale. Fino alla sua chiusura. Che cosa può aver causato, allora, quella sequela di fallimenti che tu hai così bene elencato? Gli operai, forse? Eppure erano gli stessi che lavoravano a Cordovado, quando il prodotto che confezionavano era all’apice del mercato nazionale. Come pure i sistemi produttivi. Il prodotto? Qualitativamente da escludere. Il mercato? Eravamo in pieno boom economico. Non ci resta che una componente da verificare: le gestioni. Quelle fatte da titolari, dirigenti e amministratori, coadiuvati e pressati da politici, che gestivano la borsa danarosa della Regione. Soldi nostri, delle nostre tasse, sperperati da quelle forze politiche che oggi si riempiono la bocca di liberismi e mercato. Troppe volte si sono avvicendati, nella “gestione” della fabbrica, titolari che, come direbbe un noto politico dei nostri tempi, più che imprenditori risultavano “prenditori“. Troppe volte i politici di allora elargivano con facilità contributi, prestiti agevolati e marchingegni finanziari vari, a gente improvvisatasi industriale. Troppe volte si è visto riempire la “greppia”, con la scusa di dar lavoro ai lavoratori disoccupati. Operazioni che passavano, impunite, sopra le loro teste per saziare l’ingordigia di rapaci faccendieri.

Operaie della Stefanel-Drop, negli anni ’90

E, allora, caro Pierpaolo, cosa c’entrano gli operai? Perché coinvolgerli in colpe che loro non sono. Perché mescolarli in un coacervo di paghe non riscosse, assenteismi, tagli e mugugni, in una giostra che coinvolge e omologa tutto e tutti, con il risultato di renderli partecipi dei fallimenti. Sarebbe, forse, utile e doveroso distinguerne le responsabilità. Soprattutto perché gli unici che ne hanno pagato veramente le conseguenze, sono stati proprio gli operai. Perché non provare, una volta per tutte, a chiedersi, smettendo di strumentalizzare la vicenda: fosse rimasta a Cordovado, la fabbrica, avrebbe avuto un futuro, una continuità? Penso di no. Proprio per le ragioni che ho cercato di spiegare poc’anzi. Il mercato manageriale di quei tempi offriva quel genere di conduttori. Tanti comandanti Schettino si sarebbero avvicendati a Cordovado, esattamente come a S. Vito, e ne avrebbero ugualmente decretato la chiusura. Quello era, purtroppo, il materiale imprenditoriale presente nella zona. Per loro, Cordovado o S. Vito non faceva differenza. Bastava mangiare. Basterebbe girare lo sguardo nei paesi a noi limitrofi, per trovare analoghe situazioni fallimentari. Eppure, quelle realtà produttive non erano, e non sono, state trasferite a S. Vito. Sono rimaste in loco e sono fallite lo stesso. Chiuse per incapacità imprenditoriale. Come la “fabbrica”. Lo dimostra la stessa Stefanel che l’ha rilevata, rendendola produttiva con gli stessi operai che, purtroppo non tutti, già operavano alla Vittadello. E’ stata chiusa definitivamente, dopo quasi vent’anni, per ragioni di pura strategia aziendale: non produttiva. Fin qui la mia analisi, che credo sia condivisa da una grossa fetta di cittadini.

Ricordo benissimo il breve periodo passato al Maglificio S. Vito. Uno fra i più bei ricordi è stata l’amicizia che ci lega da allora. Non conservo un’alta opinione sui metodi e il clima che trovai. Troppa confusione decisionale. Purtroppo ricordo anche la trasformazione professionale messa in atto. Perdendo così l’alta capacità di buona parte delle maestranze. Accanto a figure, quasi tutte femminili, di elevato profilo professionale e sociale ho trovato, purtroppo, anche tante persone affette dalla “sindrome di Stoccolma”. Ma, forse, pensando con il senno di poi, il morbo era stato importato, non era autoctono.

Sono d’accordo con te sull’idea di valorizzare il vecchio edificio; anche se lo reputo un tantino utopistico, attraverso un progetto di recupero di archeologia industriale. Purtroppo la sua infelice posizione, rispetto alla situazione viaria, credo possa ostacolarne la fattibilità. Sarebbe bello inaugurarlo con un’adunata di vecchi operatori che, a vario titolo, hanno collaborato nei lunghi anni. Sarebbe bello vedere finalmente risorgere, assieme al fabbricato, anche vecchie amicizie e complicità, mettendo una parola “fine” a tante interpretazioni di parte.

Franco Daneluzzi